Captain Quentin, avant(i) miei prog

Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti. Diversi, migliori, curiosi, anche ironici. Ma chi si trova in questo stato, e in questo Stato, cosa deve fare? Se sa suonare, tra le opzioni c’è un disco come “Instrumental Jet Set” dei Captain Quentin, approdati alla sponda fromSCRATCH da Taurianova verso Marte.

E’ bene sia scritto per inciso: assieme agli Aucan, ai Verdena e agli Egokid superpop questo disco rappresenta il meglio del cervello italico nei primi quaranta giorni dell’anno, una botta di senso e di peso con nessun timore reverenziale verso ciò che succede in giro. E soprattutto una ulteriore evoluzione dai temi matematici e spaziali delle prime avventure del Capitano, giusto in tempo per salutare il Beefheart che non c’è più. Pronti all’immersione in un’opera esaltante? E metterei l’accento su “opera” rock…

Le case avanti -bentornata titologia quentiniana!- parte molto più rock (in senso canonico) del solito, i synth cavalcano l’onda, registrazione e missaggio mettono in evidenza l’apporto di tutti gli strumenti, il resto lo fa l’evoluzione della trama ove prima l’uno poi l’altro prendono il sopravvento in un’interplay dalla mentalità quasi jazzistica e prog (se il 2010 si era caratterizzato per il ritorno al beat italiano, l’Undici minaccia di saccheggiare il patrimonio del rock progressivo italiano). In Gamma Rana (Rano Pano?) le tastiere di Enzo Colarco “cantano” sui ritmi folli imposti dalla batteria di Massimo Carere e dal basso di Libero Rodofili, ogni mezzo minuto può succedere qualcosa di nuovo, spunti brillanti à la Jaga Jazzist come stop’n'go di memoria chicagoana, un caleidoscopio di pura musica orgasmica a 360° gradi, totale… e si salta sulla scrivania! Chiamate il Doctor optional ché ormai il giro è padrone, la struttura è dinamica e l’album si delinea mentre vaga oltre i benemeriti recinti precedenti fino a trovare ubi consistam relativamente stabile, ogni traccia ha sede nella precedente ed è seme della prossima (Sciocchezza mon amour), non fosse per esigenze di fabbrica e dell’ascoltatore avrebbe potuto essere un unico filotto da cento minuti dove affogare i Trans AM e i Don Caballero, i Battles e i Can, presentissimo il kraut anche se tra le linee… le gambe non stanno ferme, immaginate dal vivo, mentre le scariche di chitarra di Michele Alessi e Filippo Andreacchio colpiscono in pieno il torace. (ognuno ha il proprio concetto di) Intervallo indica dal nome la prima diversione percepibile, col flauto Jethro Tull e il sax lasciato libero di svolazzare nella Republique Sauvage. Si torna a ballare come dei selvaggi -sì- sulle spoglie del rock, del postrock, della civiltà occidentale, La distanza inverte il semaforo è una colonna sonora per James Bond a sprazzi funk pittata di nero come prèfica abusiva, a un certo punto non si capisce più niente! Mai stati sulla Luna rallenta e suggestiona le modalità languide degli arpeggi, quando credi di riconoscere la spina dorsale del pezzo essa forse uccide, mai tradisce, si può pensare ad ascolti Spiritualized, forse Stereolab o Broadcast (Trisha I miss you), Bobcat (a love song) dice che con l’energia cinetica di questo disco si può prevenire il paventato nucleare: e niente va a scapito del divertimento, dopo gli Aucan la rotta è tracciata,  Ti sei mai chiesto quale funzione hai fa il verso nel titolo alla fine di “Namegivers’ Avenue” dei Fauve! Gegen a Rhino, cui i calabresi aggiungono fuoco e fiamme, razzi arpie che si moderano ma non troppo, certi tropicalismi alter-brasiliani dell’età dell’oro, Os Mutantes con batteria a ciclo continuo (dev’essere una consuetudine locale, se penso a Yandro Estrada dei Camera237) e psichedelia espansa ma non ipnotica, un breve silenzio a separarla dalla haunt track. Tra saliscendi e autostrada sgombra, è forse banale dire che questo disco è un viaggio, di quelli che non danno modo di stancare mai: tenetelo caro.