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ROCKNATION

Il 27 giugno per Overdrive Records segna il ritorno dei Captain Quentin, una delle formazioni più originali della scena indipendente italiana. “Quattro” è il loro quarto album e arriva dopo quasi nove anni di silenzio discografico, riportando in vita la formazione originale e inaugurando un nuovo capitolo: per la prima volta nella loro storia ventennale, la band introduce la voce all’interno del proprio laboratorio sonoro. Non si tratta di un cedimento alla forma-canzone, ma di un’estensione del vocabolario. Le chitarre, i bassi, i sintetizzatori e le batterie da sempre il cuore del loro suono sghembo e imprevedibile si piegano per accogliere il canto, creando spazi, sospensioni e aperture che mai prima d’ora avevano trovato posto nelle loro composizioni. L’album si compone di otto tracce, quattro delle quali con ospiti alla voce.

La scelta dei featuring è mirata e non di facciata. “Niente di più”, con Dario Brunori, è l’esperimento più evidente: il suo cantautorato si intreccia con le strutture nervose del gruppo, che per l’occasione ammorbidisce gli spigoli senza mai banalizzare. La ritmica, sempre attenta a disparità e incastri, si fa quasi elastica per lasciare spazio al respiro della melodia. “Il fantasma” ospita Max Collini, che porta il suo recitato tipico di Offlaga Disco Pax su un testo scritto da Michele Trotta: il risultato è un brano ipnotico, dal passo marziale, che sembra unire la memoria di un certo indie narrativo anni Duemila alla logica matematica dei Captain Quentin. “Kaleidoscopic Dream” è in inglese e gioca con richiami alla psichedelia anni Sessanta, ai Pink Floyd e a certe derive cosmiche, con synth che disegnano spirali e chitarre che si rincorrono. “Brillano di rosso” con Francesco Villari e Yosonu è la traccia più teatrale: parlato, sincopi e basso pulsante creano un racconto grottesco, quasi kafkiano, che trova nel suono il proprio contrappunto narrativo.

Le quattro tracce strumentali sono un manifesto di identità. “Shirime” lavora su loop ipnotici e psichedelici, riportando all’origine il DNA del gruppo. La title track “Quattro” è dominata da un basso poderoso che guida i cambi di tempo, con chitarre intrecciate che sembrano giocare a rincorrersi in una partita di tetris ritmico. “Matematica Takeaway” è forse il brano più sperimentale: distorsioni e riverberi sfiorano lo shoegaze, ma l’ossatura resta quella di un indie rock cerebrale, con batteria secca e dinamica. “E tutto questo ci incanta” chiude il disco in modo zappiano: un finale centrifugo che dissolve tensione e struttura, lasciando l’ascoltatore sospeso.

Tecnicamente, il disco brilla per precisione. Il lavoro di mix di Niccolò Mazzantini e il mastering al Pisistudio di Roma rendono giustizia a ogni strato sonoro: la batteria è scolpita, il basso profondo e mai impastato, le chitarre nitide anche nei passaggi più densi, i synth presenti ma mai invadenti. Si percepisce un’attenzione quasi maniacale per le dinamiche, per i pieni e i vuoti, per le micro-variazioni di timing che rendono ogni pezzo vivo. Se una criticità va segnalata, è forse nell’eterogeneità della parte vocale: il carattere diverso degli ospiti porta a una frammentazione emotiva che può spiazzare al primo ascolto. Ma è anche questo il punto di forza di “Quattro”: l’album non cerca coesione artificiale, preferisce essere una raccolta di visioni, un mosaico in cui ogni tessera ha dignità autonoma. “Quattro” è, in definitiva, un’opera che parla di coraggio e appartenenza.

È la Calabria che dialoga con il mondo, è il Math Rock che incontra il cantautorato, è una band che dopo vent’anni decide di rimettere in discussione se stessa. Un disco che merita ascolto attento, perché premia chi accetta di farsi sorprendere e conferma che la scena indipendente italiana, quando osa, è ancora capace di produrre lavori che escono dal solco della prevedibilità.